Il popolo malgascio è suddiviso in 18 diverse etnie che, a loro volta, contano innumerevoli clan e tribù. Dal volto ovale o tondeggiante, con i capelli lisci o ricci, la pelle bruna o decisamente nera, gli uomini sono belli, statuari ma soprattutto aggraziati e gentili; le donne sono bellissime, sensuali e disinibite, a loro spetta il compito di svolgere i lavori più duri e soltanto su loro ricade il peso dei figli.
Originari dell’Indonesia, dell’Africa, con influenze francesi e inglesi, tutti, però, hanno in comune la lingua e la religione che si fonda sul profondo culto dei morti: un variegato mondo dei defunti che convive e si intreccia strettamente con quello dei vivi, fino a pervadere ogni espressione, a determinare le scelte e gli indirizzi ed ogni momento del vivere quotidiano. La morte diventa, così, l’evento più importante nella vita di un malgascio.
Sull’altopiano, dove vivono i Merina, si costruiscono tombe seminterrate da cui, dopo quattro o cinque anni, vengono riesumati i morti con una festosa cerimonia. Per celebrarla nel giusto modo, la famiglia può anche rovinarsi. Si parla col defunto, si raccontano gli avvenimenti degli anni trascorsi dalla sua lontananza. Dal momento della sua morte diventa un avo che sempre veglierà sui parenti e sulla casa. Nell’immaginario collettivo del popolo malgascio i defunti sono più vivi e più veri dei presenti, dominando paradossalmente la società. Un malgascio non muore mai, si libera della vita terrena estremamente difficile e finalmente può rifarsi degli stenti, della fame, del lavoro e della sofferenza, morendo rinasce divinità.
La vita nelle tribù è scandita da poche e semplici tradizioni, come il matrimonio che si limita a una compravendita: qualche zebù in cambio di una sposa, oppure l’iniziazione, dove il giovane mostra la sua capacità di contribuire alla vita sociale rubando alcuni zebù. Ma il funerale è spettacolare, grandioso, con esso si misura la potenza e la ricchezza di una famiglia. Si allestiscono ricoveri e si organizza un luculliano banchetto per l’intero paese invitato alla festa. Si suona e si balla, bevendo un liquore ricavato dal riso, toaka. Nel passato, in alcune tribù, i familiari del defunto usavano mangiare la sua carne, per mantenere così la continuità tra la vita e la morte e l’indissolubile presenza dell’antenato nel cuore e nel sangue di coloro che restavano. Oggi si mangia zebù, più se ne sacrificano, più è importante il defunto e più corna orneranno la tomba. Il povero zebù, utilizzato per ogni occasione, in questo caso viene sacralizzato. Del resto lo zebù viene ricordato persino nelle preghiere dei malgasci e gli allevatori sono elevati al rango di proto-sacerdoti.
Anche gli zebù, oltre che alla lingua e alla religione, riuniscono i tanti tipi umani del popolo malgascio, così vario nell’origine e nei tratti somatici. Le sue corna si ritrovano sulle grandi tombe quadrate degli Antandory, sulle cui pareti sono dipinti, in stile naif, gli avvenimenti più salienti della vita del defunto, oppure sono poste l’una sull’altra ad arricchire gli obelischi di legno intagliato che gli Antanosy lasciano ai bordi delle piste ad eterna commemorazione. E ancora, corna di zebù distanziano le grandi statue lignee disposte agli angoli delle tombe Sakalava o disegnano il perimetro di quelle Mahafaly dove sono infilate decine di alvado, totem di legno scolpiti con figure mitiche e scene di vita.
Per tutte le genti del Madagascar esiste un proverbio per ogni minima cosa. Ogni momento della vita viene come idealizzato e la fortuna e l’aiuto degli antenati sono invocati in mille modi, propiziati attraverso un’interminabile serie di fady, tabù, divieti. È fady mangiare carne e pesce assieme, sbucciare la banana con i denti, indossare monili d’oro. È fady uccidere la tartaruga quando è sulla terra, rubare il pesce. Questo credere intensamente nei tabù è un’altra lunga linea di congiunzione che unisce strettamente tutto il popolo malgascio, che ha mescolato assieme il misticismo indiano, la magia degli arabi e l’idolatria africana.
A Nosy Be, per colpa di un fady, abbiamo visitato a piedi nudi l’albero sacro. Calpestare con le scarpe il suolo sul quale sorge l’albero sacro, infatti, rappresenta un sacrilegio; gli antenati potrebbero adirarsi! Il ficus gigantesco, talmente grande che mai avremmo pensato fosse un unico albero, è ritenuto sede delle anime dei defunti e quindi sacralizzato dai malgasci.
Per le feste legate quasi esclusivamente al culto dei morti, che sono svariate e diverse a seconda della regione d’appartenenza, dei gruppi etnici e della cultura locale, non esistono date precise, poiché le ricorrenze vengono stabilite, di volta in volta, dai rituali e dagli astrologi.
Alla fine di maggio a Nosy Be si assiste ala manifestazione più importante dell’Oceano Indiano, il Festival della Musica di Donia. Dura vari giorni, durante i quali si esibiscono diversi gruppi musicali provenienti da tutta la regione.
Un’altra nota rappresentazione è il Madagascar Jazz Festival, che si svolge nella Capitale, Antananarivo, al quale partecipano musicisti di fama internazionale.